Si fa presto a parlar di polenta! Ai giorni nostri lo consideriamo un piatto davvero tradizionale comune in diverse regioni, ma che forse è poco presente nelle cucine domestiche a causa del lungo procedimento di realizzazione (ma potreste barare utilizzando quella rapida, che ricorda molto lontanamente la polenta di cui vi sto narrando).

Non tutti sanno che nelle nostre terre marchigiane la polenta era l’unico pasto sempre a disposizione della famiglia contadina: economica e di facile realizzazione, veniva preparata tutti i giorni (da cui la frase “Sei dì, dodici pulende“) e condita con miseri “sughetti”, il più delle volte cipolla sfritta e lardo, olio a crudo o “lardelletti“, ossia cubettini di grasso di maiale.
Un pasto così presente (anche drammaticamente a causa delle tante persone affette da pellagra) che è entrato in maniera naturale ma prepotente nel parlato quotidiano, diventando protagonista di stornelli e dicerie.
Una tra le tante riportate nelle “Dicerie popolari marchigiane tra ottocento e novecento” del mitico Claudio Principi di Corridonia ve la racconto qui sotto:

Per dar conto scherzosamente delle predilezioni gastronomiche della gente marchigiana, un tempo si riferiva questo dialogo intervenuto tra due popolani:
Combà, se ffusci papa tu, che mmagniristi?
La pulè co’ lu stoccafissu. E ttu, combà, che mmagniristi?
Non sàccio più che dditte: tu ti sci ‘rcapato lo mejo!
Come si potrà ben immaginare, le lodi alla polenta marchigiana venivano anche cantate a squarciagola nelle nostre campagne. Qui basterà ricordare questo stornello:

Fior de cannèlla!
Um biattu de pulènda calla calla,
un mmàsciu a ppizzichittu, fija vella! 

Un canto che accozza insieme, arditamente, il boccone di polenta e il bacione strappato alla donna del cuore.
Per contro, però, si potrà anche ricordare almeno uno dei tanti motti di contestazione che si potevano udire:
La pulènda, présto tira e pprésto llènda!